Pubblicato in origine su Wired nel novembre 2021
Uno spettro si aggira per il mondo. Lo spettro dei bitcoin e delle criptovalute che – date per morte e sepolte centinaia di volte – continuano invece a crescere di valore, a trovare nuove applicazioni (da ultimi, gli nft) e, più in generale, a consolidare la loro presenza incuranti del fortissimo scetticismo da cui sono circondate. Nonostante la citazione marxista da cui siamo partiti, e nonostante il potenziale rivoluzionario, sarebbe sbagliato collocare sbrigativamente a sinistra l’ecosistema delle criptovalute. Al contrario, questo mondo è storicamente considerato di destra.

Andiamo con ordine. Perché delle monete digitali dovrebbero avere una collocazione politica? In realtà, i bitcoin e la blockchain nascono in un ambiente fortemente ideologico e hanno uno scopo esplicitamente politico. I bitcoin hanno infatti origine nella celebre mailing list di cui faceva parte anche il loro anonimo ideatore, Satoshi Nakamoto. Una mailing list animata dal gruppo noto come cypherpunks: esperti di crittografia estremamente diffidenti nei confronti dello stato (ne faceva parte anche Julian Assange) e di conseguenza molto gelosi della loro privacy.
In generale, l’approccio politico dei cypherpunks si può definire libertario: una corrente politica in cui è data importanza esclusivamente alla libertà del singolo individuo. Semplificando al massimo: ogni persona dev’essere libera di fare tutto ciò che vuole a meno che la sua libertà non interferisca direttamente con quella degli altri.
I libertari sono quindi a favore dei diritti civili (matrimoni tra coppie dello stesso sesso, aborto, eutanasia), sono contrari a qualunque forma di sorveglianza e in materia economica si oppongono a ogni intromissione da parte dello stato – compresa la tassazione, considerata un’indebita appropriazione del frutto del proprio lavoro – e da parte di corpi intermedi come i sindacati (considerati intrusi nella libera contrattazione tra individui).
Per quanto siano vicini alla sinistra nel campo dei diritti civili, si pongono a destra – per la precisione nel campo del liberismo più estremo – in ambito economico. Ed è proprio alla destra dello spettro politico che i libertari vengono generalmente collocati. Da questo punto di vista, i bitcoin rappresentano un vero e proprio salto di qualità ultralibertario: una moneta decentralizzata – gestita dalla rete di computer che entra a far parte del registro pubblico della blockchain –, che non è emessa da banche centrali e che quindi sfugge al controllo delle nazioni. Una moneta che garantisce (parziale) anonimato anche nelle transazioni elettroniche e che cerca di avvicinare la nostra economia al modello immaginato dall’economista austriaco Friedrich Hayek nel suo La denazionalizzazione della moneta del 1976. Il sogno di Hayek
Secondo Hayek, in un mondo in cui non esiste la società, ma solo il libero individuo, “il mercato è la somma di tutte le azioni umane volontarie. Se una persona agisce in maniera non-coercitiva, è parte del mercato”. Vent’anni dopo, nel libro del 1997 The Sovereign Individual, James Davidson e William Rees-Mogg immaginarono un futuro in cui l’autorità statale scompare e una moneta nativa di internet (chiamata cybermoney) assume un ruolo centrale in questo disfacimento da loro auspicato.
Se però usciamo dalle grandi ideologie libertarie e torniamo nel mondo di tutti i giorni, assistiamo a uno scenario decisamente più prosaico. Uno scenario composto da criptomiliardari che si rifugiano in paradisi fiscali al solo scopo di non pagare le tasse sui loro enormi guadagni e da colossali ricchezze concentrate nelle mani di pochi speculatori, che incrementano ulteriormente le disuguaglianze sociali.La versione socialista
C’è un’altra strada? È possibile una visione di sinistra – o addirittura socialista – delle criptovalute, che vada a vantaggio di tutta la società? Secondo il fondatore del podcast Blockchain Socialist (noto solo come Adrian), da questo punto di vista “i bitcoin non hanno grande fascino, ma Ethereum invece sì: per merito degli smart contracts”. Gli smart contracts sono contratti basati su blockchain che si eseguono automaticamente nel momento in cui le condizioni sottoscritte dalle parti vengono soddisfatte.
Tramite gli smart contracts si potrebbero in teoria automatizzare i compensi dei lavoratori autonomi (elargiti in contemporanea alla consegna del lavoro), la compravendita di energia pulita tra privati (scambiata liberamente tra piccoli produttori, senza bisogno di intermediari), l’allocazione di determinate tasse a favore di investimenti precisi e molto altro ancora. Da questo punto di vista, spiega sempre Adrian di Blockchain Socialist, gli smart contracts sono in armonia con lo scenario immaginato nel Diciannovesimo secolo da Friedrich Engels, secondo cui “il governo delle persone sarebbe stato sostituito dall’amministrazione delle cose”. La blockchain, in quest’ottica, permetterebbe infatti di sbarazzarsi degli amministratori e della burocrazia, facendo piazza pulite dei “tecnocrati”.
Ma è davvero un’applicazione sempre e comunque positiva? E questa automatizzazione è necessariamente di sinistra? In realtà, no: basti pensare che gli smart contracts consentono, tramite serrature connesse a internet, di impedire l’accesso a casa agli affittuari in ritardo con il pagamento. È difficile considerare di sinistra questo sfratto automatizzato, che avviene indipendentemente dalle ragioni economiche o dalle condizioni familiari. Anzi, quest’utilizzo della blockchain fa semmai presagire un mondo in cui un rigido codice informatico sostituisce l’elasticità, il buon senso e magari anche la compassione degli esseri umani.
Proprio partendo da quest’esempio, lo scrittore Ben Tarnoff ha affermato che l’ultraliberismo non è semplicemente diffuso tra i sostenitori della blockchain, ma è direttamente incorporato al suo interno. Non tutti, però, sono d’accordo: il filosofo Mark Alizart sostiene che le blockchain siano di per sé socialiste, perché sottraggono il potere alle élite finanziarie, alle banche e allo stato capitalista per restituirlo alle persone, che possono liberamente prendere parte a una blockchain pubblica e contribuire attivamente alla costruzione di una nuova economia e governance decentralizzata.
Un esempio classico riguarda proprio l’economia di piattaforma. Se da una parte la sua versione capitalista – da Uber a Deliveroo – ha dato nuova linfa al lavoro a cottimo (dove inoltre il rischio di impresa è scaricato sui lavoratori), la blockchain è diventata invece l’infrastruttura alla base di quello che viene chiamato cooperativismo di piattaforma, in cui, sempre grazie agli smart contracts, i guadagni e le perdite sono automaticamente distribuiti tra tutti i lavoratori che partecipano alla realtà cooperativa (potete immaginare una sorta di Uber di proprietà di tutti gli autisti e da loro direttamente gestita).Storie di ordinaria blockchain
Finora, pochi di questi esperimenti hanno avuto successo. Tra questi ha però sollevato un certo interesse Trustlines, un sistema mutualistico alternativo che permette di erogare e ricevere servizi o beni scambiandosi non denaro, ma crediti emessi tramite blockchain e basati (come immaginato da Proudhon) sulla quantità di lavoro necessario. Offrire aiuto a un utente di Trustlines permette quindi di guadagnare dei crediti che potranno essere impiegati per acquistare qualcosa o farsi aiutare a propria volta. “È un ritorno a una forma decentralizzata e organica di denaro”, ha spiegato a MelMagazine la fondatrice Aleeza Howitt.
C’è davvero bisogno della blockchain per un progetto di questo tipo? “L’utilizzo delle criptovalute rende tutto il processo radicalmente trasparente”, precisa Howitt. Non solo, in questo tipo di applicazioni la blockchain semplifica anche le operazioni di governance, dando la possibilità di votare i progetti o i servizi a cui allocare nuovi fondi e di controllare in qualunque momento che tutto stia andando come da programma.
È innegabile che tanto a destra quanto a sinistra la blockchain sia al centro di irrealizzabili ideali utopistici (o distopici): dalla privatizzazione della moneta, fino alla creazione di una sorta di ideale kibbutz digitale. Questo però non fa altro che confermare la forza ideologica di una tecnologia presentata al mondo ormai 13 anni fa.
I principi alla base della blockchain e soprattutto dei bitcoin hanno innegabilmente un’origine libertaria, ciò non toglie che il registro distribuito possa essere impiegato anche per progetti e missioni tipiche della sinistra socialista: dal mutualismo al collettivismo. Come ha chiosato sempre Howitt: “La destra si preoccupa del valore di un ether, la sinistra di cosa si può costruire con Ethereum”. Una sintesi forse semplicistica, ma efficace.