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Che il giornalismo online annaspi a trovare la strada per un modello economico sostenibile lo vediamo ogni giorno: il proliferare degli ormai canonici gattini sulle pagine Facebook dei quotidiani più noti d’Italia ne è un chiaro esempio; così come le mostruosità generate dalla ricerca spasmodica della parola chiave azzeccata da dare in pasto a Google.
Sono due facce della stessa medaglia: da una parte si punta su contenuti il più facili possibile, che incuriosiscano chiunque ci incappi e spesso e volentieri prodotti in termini di video o gallery, in modo da ottimizzare l’inserimento della pubblicità o moltiplicare le pagine visualizzate; dall’altra parte si punta sull’aspetto più tecnico del giornalismo online, il SEO (search engine optimization, ovvero le tecniche per fare sì che un articolo sia ottimizzato per i motori di ricerca), che permette di conquistare una marea di visualizzazioni durante alcuni avvenimenti specifici (per esempio, durante le elezioni) e in generale consente di ottenere grossi risultati — in termini di pageviews — sfruttando il desiderio degli utenti di internet di avere informazioni più approfondite su alcuni aspetti delle news del giorno (da qui l’abuso dei “chi è”, “cosa sono”, “quando”, “quanto”, ecc. nei titoli).
Perché è avvenuto tutto questo? Quand’è che l’informazione online si è abbassata a tal punto da dare la priorità alle foto di gattini e ai video LOL da “colonna destra” che poi finiscono a intasare le nostre bacheche Facebook? Quand’è che uno strumento come Google — che serve per facilitare la vita agli utenti attivi, quelli che cercano approfondimenti rispetto alle semplici news — è diventato la testa d’ariete utilizzata selvaggiamente da tecnici/giornalisti, che hanno il solo obiettivo di piazzare la keyword migliore senza alcuna volontà di dare un’informazione approfondita, e a volte nemmeno corretta?
Ci sono pochi dubbi sulle cause della degenerazione dell’informazione online che circola attraverso Facebook, Twitter e Google (ovvero gli strumenti principe della loro diffusione): tutti i tentativi per guadagnare con il giornalismo sul web che non passano dalla pubblicità sono falliti. E siccome il valore di buona parte della pubblicità sui siti internet è proporzionale alle visualizzazioni raggiunte, il gioco è fatto: si punta sulle pageviews a ogni costo con le mostruosità che ne conseguono.
D’altra parte: il paywall (la modalità per cui si può leggere un articolo solo in seguito al pagamento di una piccola quota) si è rivelato estremamente ostico e non lo sperimenta quasi più nessuno; la sottoscrizione, sotto forma di donazione libera o di abbonamento con alcuni benefit (tipicamente un ebook al mese da scaricare gratuitamente o simili), non ha portato grossi risultati e alcune forme ibride tra giornalismo e pubblicità (come quella dei native ads) sono ancora agli stadi primordiali.
Ci sono davvero alcune ragioni per pensare, come ha detto James Harding, direttore di Bbc News, che questo sia il “momento più eccitante di sempre per occuparsi di giornalismo”
Le buone notizie, per il momento, sono due. Il modello pubblicitario di alcuni siti che puntano sulla massa indifferenziata degli utenti sta iniziando a dimostrare di essere sostenibile economicamente; mentre per quanto riguarda il giornalismo di qualità la buona nuova è che la sperimentazione continua senza sosta, alla ricerca di un modello di business che permetta anche alle inchieste, ai long-form, ai reportage di trovare una sua via nel mondo online.Nonostante le difficoltà immense di cui si parla quotidianamente, ci sono davvero alcune ragioni per pensare, come ha detto James Harding, direttore di Bbc News, che questo sia il “momento più eccitante di sempre per occuparsi di giornalismo”.
Estratto da Tiratura Illimitata di Andrea Daniele Signorelli (Mimesis edizioni, 2015). Il libro si può acquistare online sullo store Mimesis o su Amazon.
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