Pubblicato in origine su Pagina99 nel luglio 2017
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Considerando la quantità di cyberattacchi lanciati negli ultimi mesi – dietro i quali si celerebbero i servizi segreti di nazioni come la Corea del Nord, la Cina o la Russia e che avrebbero anche l’obiettivo di destabilizzare gli equilibri democratici delle nazioni rivali – si capisce come mai si parli sempre meno della possibilità di iniziare (o completare) il passaggio dal sistema di voto tradizionale, con le matite e le schede di carta, al voto elettronico, che rischia di essere troppo vulnerabile agli attacchi hacker.
Non solo: le nazioni che già oggi usano abbondantemente il voto elettronico, come gli Stati Uniti, si sono trovate costrette a ritirare le vecchie voting machine (è avvenuto per esempio in Virginia) per il timore di subire manomissioni che avrebbero compromesso l’affidabilità dei risultati elettorali. Resteremo allora vincolati per un tempo indefinito alle classiche schede elettorali, preferendo qualche assurda polemica sulle matite copiative ai rischi reali di infiltrazioni nel nostro sistema elettorale?
In verità, una via d’uscita c’è: merito dell’onnipresente blockchain, la tecnologia del “registro distribuito, crittografato e anonimo” che è alla base dei Bitcoin e che promette, tra le tante cose, di rendere definitivamente sicuro il voto elettronico.
Di questo si stanno occupando startup come Blockchain Technologies Corpe Follow My Vote, sul cui sito si legge: «Depositando il proprio voto come una transazione della blockchain, possiamo creare una catena che tenga traccia di tutti i voti in modo anonimo. In questo modo, non ci sarebbero più disaccordi sul voto finale, perché tutti i volontari che scaricano sul loro computer il registro hanno la possibilità di verificare automaticamente che nessun voto sia stato modificato, cancellato o aggiunto illegittimamente». Così, non solo il sistema di voto elettronico diventerebbe più sicuro (ed economico) anche di quello cartaceo, ma si impedirebbero crisi come quella vista nelle elezioni statunitensi del 2000 tra George W. Bush e Al Gore (senza parlare del fatto che sarebbe possibile votare da casa).
Alcuni partiti hanno già deciso di sperimentare internamente la blockchain: è il caso del Libertarian Party del Texas – che ha sfruttato questa tecnologia durante l’ultima convention per nominare i candidati statali – ed è il caso anche dell’Alleanza Liberale e del Partito Pirata danesi, che già dal 2014 stanno utilizzando un prototipo sviluppato dalla Blockchain Technologies Corp per svolgere alcune votazioni interne. Fin qui, però, ci troviamo davanti a una tecnologia che consente solamente di rendere anonimi e sicuri i voti dei singoli elettori: un aspetto sicuramente importante, ma comunque non rivoluzionario.
In verità, le ambizioni di chi lavora alle piattaforme per il voto elettronico si estendono molto oltre e hanno niente meno che l’obiettivo di restituire ai cittadini la fiducia perduta nei confronti delle istituzioni (in Italia, la fiducia nei confronti del Parlamento è arrivata a un misero 11%, quella nei partiti addirittura al 6%; la situazione è molto simile anche negli Stati Uniti e altrove). Miracoli della “democrazia liquida”: concetto teorizzato, tra gli altri, dallo scienziato informatico Bryan Ford, che guida il laboratorio Decentralized/Distributed Systems dell’Istituto Svizzero di Tecnologia di Losanna.
Queste piattaforme permettono di cambiare il delegato ogni volta, scegliendo il più adatto in base all’argomento sul quale si deve votare
Prendendo ispirazione dalla democrazia diretta di stampo ateniese (inattuabile in una società complessa come la nostra), Ford ha immaginato una sorta di “democrazia delegativa”, resa possibile da apposite piattaforme tecnologiche. Quando vengono chiamati a decidere su un determinato tema, gli elettori possono esprimere direttamente il loro voto nel caso in cui si sentano preparati sull’argomento; se invece la materia è troppo complessa, o non si possiede una preparazione adeguata, il sistema prevede la possibilità di delegare il proprio voto a persone che si ritengono degne di fiducia e competenti. A differenza della democrazia rappresentativa attualmente in uso, queste piattaforme permettono di cambiare il delegato ogni volta, scegliendo il più adatto in base all’argomento sul quale si deve votare.
Gli strumenti, tra l’altro, esistono già: dalla nota Liquid Feedback, alla svedese Demoex (che consente ai sostenitori di indicare come votare al rappresentante eletto dal partito collegato alla piattaforma); da Sovereign (creata dalla Ong Democracy Earth, nonché la prima a prevedere la possibilità di delegare il voto a chiunque si desideri), fino all’australiana Flux.
Quest’ultima è una piattaforma sviluppata da XO.1: startup che ha già dimostrato di poter sfruttare la blockchain per gestire in sicurezza milioni di voti e ha anche previsto la possibilità di affidare a un ente terzo indipendente la verifica della correttezza dei voti e l’assenza di manomissioni da parte dei gestori della piattaforma (aspetto fondamentale che manca, per esempio, nei sistemi di “democrazia diretta” del Movimento 5 Stelle, gestiti senza troppa trasparenza dalla Casaleggio Associati).
In tutto ciò, però, si dà per scontata una cosa: che in futuro sarà necessario che siano ancora gli uomini a votare. E che quindi la democrazia (rappresentativa o liquida che sia) continuerà a essere inevitabilmente compromessa dagli interessi particolari delle lobby, dalle abilità degli spin doctor, dalle promesse esagerate di politici in campagna elettorale, dagli slogan populisti che puntano alla pancia dell’elettorato e, in definitiva, da quel costante rumore che ci impedisce di votare in maniera razionale.
A cosa serve avere delle elezioni democratiche quando gli algoritmi sanno già come voteremo?
D’altra parte, esiste un’alternativa? Secondo lo storico israeliano Yuval Noah Harari, sì: «Gli algoritmi di Google e Facebook non solo sanno esattamente come ti senti, ma conoscono anche un milione di altre cose che noi a malapena sospettiamo. Di conseguenza, dovremmo smettere di dare retta ai nostri sentimenti e iniziare invece ad ascoltare questi algoritmi. A cosa serve avere delle elezioni democratiche quando gli algoritmi sanno già come voteremo e anche le esatte ragioni neurologiche per cui una persona vota democratico e un’altra repubblicano?».
La provocazione dell’autore di Homo Deus (Bompiani, 2017), critico nei confronti della “religione degli algoritmi” da lui stesso soprannominata dataismo, si fonda però su basi solide. Una ricerca delle università di Cambridge e Stanford ha dimostrato come l’algoritmo di Facebook sappia tutto di noi e ci conosca meglio di quanto ci conoscano parenti, coniugi, amici e colleghi; in alcuni casi ci conosce meglio di noi stessi.
La campagna elettorale sui social network di Donald Trump si è dimostrata di enorme successo proprio per questo: sfruttando i dati relativi ai singoli elettori, l’agenzia Cambridge Analytica (assoldata da Trump e non legata all’università omonima) è riuscita a indirizzare con estrema precisione messaggi politici cuciti su misura per il singolo elettore. Ribaltando la questione, non è impossibile immaginare che l’algoritmo di Facebook possa essere in grado di decidere meglio di noi quale sia il candidato o partito che fa al caso nostro, filtrando tutto il rumore della politica e basandosi solo sui nostri ideali e sul nostro profilo socio-economico.
Come detto, si tratta solo di una provocazione: non è auspicabile che il diritto di voto venga delegato a un’impresa privata. E se anche fosse possibile trasferire le conoscenze di Facebook su una piattaforma gestita direttamente dalle istituzioni democratiche, come comportarsi con quella parte di elettorato che non è presente su Facebook o che magari fornisce al social network un’immagine distorta di se stessa, dei suoi valori e aspirazioni?
Per risolvere l’inghippo, forse, ci si potrebbe semplicemente affidare a un’intelligenza artificiale. Non per votare in vece nostra, ma per governare direttamente al posto dei politici: «Eleggiamo i politici con la speranza che incarnino i nostri ideali e valori, solo per venire regolarmente e amaramente delusi», scrive Joshua Davis su Wired USA. «Un “presidente intelligenza artificiale” potrebbe invece offrirci la più pura forma di governo, focalizzata solo sugli ideali che vogliamo che il nostro presidente rappresenti. Gli elettori potrebbero scegliere tra una AI democratica e una repubblicana, che prometta di tenere fede al programma politico del partito. In alternativa, gli elettori potrebbero esprimere la loro preferenza su una serie di questioni, dopodiché verrà progettata una AI che rifletta la volontà popolare su ognuno di questi temi».
Una AI avrebbe rapidamente concluso che l’invasione dell’Iraq era chiaramente una pessima idea
Ma davvero un’intelligenza artificiale sarebbe in grado di occuparsi di temi economici, sociali o geopolitici? Oggi come oggi, forse no; vale però la pena di ricordare che AlphaGO, AI sviluppata da Google, ha da poco vinto sessanta partite di fila sconfiggendo i più grandi giocatori di GO; un gioco estremamente complicato, dalle combinazioni pressoché infinite e che richiede di pianificare la strategia migliore con ampio anticipo. Qualità che, in politica, tornano molto utili. «Immaginate un presidente AI nel 2003», prosegue Davis. «Il software avrebbe analizzato decenni di rapporti su Saddam Hussein, assorbito tutta l’intelligence a disposizione sulle armi di distruzione di massa e avrebbe concluso che l’invasione dell’Iraq era chiaramente una pessima idea».
Considerando l’impressionante velocità con la quale l’intelligenza artificiale progredisce, non ci sarebbe troppo da stupirsi se, nel giro di qualche decennio, la possibilità di affidare direttamente le chiavi del governo a un robot abbandonasse il regno della fantascienza e diventasse un’ottima idea. Prima, però, ci sono un paio di ostacoli da superare: al momento, le intelligenze artificiali sono strettamente dipendenti dalla qualità dei dati che viene loro fornita; inoltre, sono infarcite dei valori e dei pregiudizi dei suoi creatori (facendo così venir meno la loro presunta oggettività).
Ma l’ostacolo più grande è un altro: le AI hanno un modo fin troppo diretto di portare a termine gli obiettivi; per esempio, potrebbero decidere che il modo migliore per prevenire gli incendi sia quello di abbattere tutti gli alberi nelle zone a rischio – qualcosa di simile, a dire la verità, l’aveva pensato anche George W. Bush – e che per ridurre la fame nel mondo la scelta più razionale non possa che essere quella di ridurre anche la popolazione. A quel punto, più che in una democrazia dell’algoritmo, ci troveremmo a vivere in una tirannia robotica.