Nel 1999, il 7,7% degli statunitensi assumeva antidepressivi, percentuale salita fino al 12,7% nel 2014: una crescita del 64%. L’industria della salute mentale, nel suo complesso, è destinata a raggiungere i 12 miliardi di dollari entro il 2024 a livello globale, con un tasso di crescita del 7% l’anno. Nel frattempo, nuove pillole si preparano a invadere il mercato, tra cui pare essere particolarmente emblematico lo studio in corso per una pillola che aiuti a combattere la solitudine.

«La solitudine è parte della condizione umana», si legge su OneZero. “Un segnale d’allarme primordiale, come la fame o la sete, per spronarci a cercare una risorsa primaria: la connessione. Milioni di anni di evoluzione ci hanno forgiato come creature che hanno bisogno di legami sociali nello stesso modo in cui abbiamo bisogno di cibo e acqua. Eppure, siamo sempre più isolati. La solitudine non è più uno strumento abbastanza potente da rompere i silos creati dalla vita moderna. Così com’è il caso della nostra insaziabile passione per i cibi altamente calorici, ciò che un tempo era uno strumento adattativo è diventato talmente disallineato con la vita che conduciamo da causare un’epidemia”.
Ed è proprio per questo che Stephanie Cacioppo, direttrice del Brain Dynamics Lab all’Università di Chicago, sta esplorando la possibilità di creare una pillola per combattere la solitudine. D’altra parte, se ci sono pillole per la depressione e l’ansia, perché non per la solitudine? A differenza dell’ansia e della depressione, però, la solitudine non viene riconosciuta come un disturbo clinico, come una malattia. Non è possibile ricevere una cura per chi si sente cronicamente solo e isolato dal resto del mondo.
«Forse dovremmo chiamarla sindrome da isolamento sociale», ha spiegato la psicologa Ellen Hendriksen, raccontando come lei stessa rappresenti l’unico contatto umano che alcuni suoi pazienti hanno nel corso di svariati giorni. Ma se gli esseri umani hanno così bisogno degli altri, perché soffriamo di solitudine nel chiuso delle nostre case invece di telefonare a un amico o darci da fare per partecipare a qualche iniziativa sociale?
Come sempre, le cose non sono così semplici. Secondo la professoressa Stephanie Cacioppo, la solitudine è spesso «il risultato dell’interazione tra i segnali biologici che ci spingono a interagire con altri e le disfunzioni mentali che ci fanno percepire ovunque un pericolo sociale». E se la solitudine è causata anche da disfunzioni mentali ben precise, significa che può essere considerata una malattia e quindi sia possibile trovare una cura.
Un ormone steroideo chiamato pregnenolone ha dimostrato di essere in grado di migliorare i disturbi legati allo stress
Stephanie Cacioppo sta sperimentando gli effetti di un ormone steroideo chiamato pregnenolone, che ha dimostrato di essere in grado di migliorare i disturbi legati allo stress e di abbassare la soglia di allerta che ci fa percepire “minacce sociali” ovunque (fosse anche solo incrociare lo sguardo con uno sconosciuto). L’obiettivo, come spesso avviene nei casi di disturbi di questo tipo, è quello di spezzare il circolo vizioso: negli esperimenti, è stato mostrato che i topi che rimangono isolati dagli altri riducono i loro livelli di pregnenolone, il che rende più difficile affrontare delle situazioni sociali, aumentando quindi l’isolamento.
«Se potessimo ridurre questi sistemi d’allarme nella mente degli individui che si sentono soli, allora potremmo aiutarli a riconnettersi con gli altri, invece di continuare a isolarsi», ha spiegato sempre Cacioppo. L’aspetto più interessante di questa sperimentazione è che non punta a farvi sentire meno soli mentre però continuate a esserlo, ma a spronare chi soffre di solitudine ad affrontare gli ostacoli percepiti, e quindi a connettersi più facilmente con gli altri.
Il primo grande studio sugli effetti del pregnenolone è iniziato nel maggio 2017 e andrà avanti a lungo. È ancora presto, quindi, per trarre conclusioni, ma il team di Stephanie Cacioppo si è detto «cautamente ottimista che i risultati mostreranno una diminuzione della solitudine percepita», mostrando ovviamente anche quali possano essere eventuali effetti collaterali.
Ma c’è un problema: come si distingue chi soffre di solitudine per cause neurochimiche e chi invece ne soffre solo ed esclusivamente per ragioni sociali, magari a causa di un trasferimento di lavoro che lo ha allontanato dagli affetti? Secondo Stephanie Cacioppo, la distinzione probabilmente non è così importante: la solitudine è in ogni caso un segnale che si sta soffrendo per un’assenza di legami sociali; il fatto che molti di noi siano in grado, a un certo punto, di emergere dall’isolamento non significa che non si possa comunque beneficiare dall’assunzione di un farmaco in grado di prevenire il problema nelle sue forme più gravi.
Si dovrebbe agire anche attraverso cambiamenti nel nostro stile di vita e non vedere necessariamente la solitudine come un problema da risolvere per via farmacologica
Non tutti, ovviamente, sono d’accordo con questa chiave di lettura: secondo la psicologa Julianne Holt-Lunstad si dovrebbe agire anche attraverso cambiamenti nel nostro stile di vita e non vedere necessariamente la solitudine come un problema da risolvere per via farmacologica. Il punto è che la causa prima di questa “epidemia” è da ricercarsi proprio nel modo in cui è organizzata la vita sociale nelle grandi città del primo mondo; che causa quasi naturalmente una certa dose di solitudine rispetto alla vita nei villaggi o anche solo in molti paesi italiani.
Discorsi simili valgono anche per un altro male tipico dei nostri tempi che è – a parziale differenza della solitudine – indissolubilmente legato al capitalismo ultracompetitivo in cui siamo immersi: il burnout. Una sindrome – anzi, un “fenomeno occupazionale”, come l’ha definito nel maggio 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità – che colpisce chi è sottoposto per lungo periodo di tempo a uno stress intenso, fino al punto da far cedere il nostro cervello e farci provare unicamente sensazioni di spossatezza, negatività e impossibilità di proseguire il lavoro. Il burnout è un fenomeno tipico della generazione dei millennials (20/30enni): i lavoratori post-Crisi, quelli che si sono dovuti adattare a un mondo del lavoro con compensi bassi, richieste elevatissime, orari assurdi e precariato costante. Non è una malattia di cui non conosciamo le cause: è l’inevitabile conseguenza delle degenerazioni nel mondo del lavoro.
Come possiamo combattere il burnout? Di nuovo: con le pillole! In uno studio pubblicato sulla rivista accademica Cell nel luglio 2019, alcuni scienziati della Washington University hanno illustrato le loro ricerche volte a comprendere come e perché il burnout si manifesti nel nostro cervello. A questo scopo, hanno studiato il cervello dei topi da laboratorio per comprendere che cosa succede quando smettono di inseguire una gratificazione; in che momento, quindi, subiscono un burnout. Nelle loro ricerche, sono riusciti a rintracciare le cause del burnout in alcune cellule del cervello che sembrerebbero essere all’origine della nostra necessità, a un certo punto, di alzare bandiera bianca.
L’esperimento che ha permesso ai ricercatori di fare queste scoperte è piuttosto semplice. Una cavia doveva colpire con il naso un bottone presente nella sua gabbia, quando completava il compito riceveva in cambio acqua zuccherata. Mano a mano che lo studio procedeva, però, il numero di volte che il bottone andava colpito per ricevere in cambio il premio non faceva che aumentare, fino al punto in cui doveva essere colpito 100 volte per ottenerlo. Molte delle cavie si sono arrese prima, rinunciando. Erano quindi vittima di una sorta di burnout: un esaurimento mentale che le imponeva di rinunciare al premio.
Dietro questa mancanza di motivazione ci sarebbe un neuromodulatore, la nocicettina. Nel caso del topo frustrato, la presenza crescente della nocicettina nel suo cervello stava rendendo sempre più difficile per la dopamina – che è invece, come abbiamo visto nel capitolo 1, legata alla ricompensa – fare il suo lavoro di stimolante. Più il topo va a caccia del premio, più le cellule della dopamina producono questa sostanza, motivandolo a proseguire e a schiacciare il bottone. Ma quando il lavoro si fa troppo complesso, le cellule della nocicettina iniziano a produrne sempre di più: «Di base, appena prima che l’animale si arrenda è il momento in cui questa attività neuronale raggiunge l’apice», ha spiegato a Inverse Michael Bruchas, primo firmatario dello studio. In sintesi, una futura pillola contro il burnout dovrebbe avere il compito di manipolare la quantità di nocicettina che viene rilasciata dal nostro cervello e impedirci così di arrivare al punto in cui, di fronte a troppo stress e a un eccessivo carico di lavoro, decidiamo estenuati di arrenderci.
Se questo scenario vi sta facendo avvertire una sensazione di déjà vu, è perché una situazione simile è stata già dipinta in un classico della distopia: Il Mondo Nuovo
E quindi: stimolanti per stare al passo con la produttività resa possibile dalle nuove tecnologie e non rimanere indietro con tempistiche e consegne sempre più esigenti; antidepressivi e ansiolitici per combattere gli effetti di un mercato del lavoro precario che impedisce di progettare un futuro a lungo termine; pillole contro la solitudine per fronteggiare gli effetti collaterali di una società disgregata e atomizzata; pillole contro il burnout per impedire che il nostro cervello ci possa segnalare, allo stremo delle forze, quando è il momento di dire stop a tutto questo. Invece di rendere le nostre condizioni di vita e lavorative migliori, stiamo inventando farmaci che ci consentono di andare avanti anche quando è insostenibile. Stiamo progettando un mondo di merda, sfruttando i farmaci per continuare a fingere che tale non sia.
Il “mondo nuovo” è quello in cui oggi stiamo vivendo: nuove tecnologie vengono progettate promettendo un mondo sempre più connesso, mentre ci consentono soprattutto di lavorare di più, essere più sorvegliati e consumare più rapidamente; contribuendo nel frattempo alla disgregazione sociale. Invece di affrontare le cause sistemiche che anche chi nega l’epidemia di disturbi mentali ritiene essere alla base di molti di questi, inventiamo pillole che ci permettono di tirare avanti anche quando le condizioni sono insostenibili.
Lo ha affermato anche chi difficilmente potremmo considerare un pericoloso anticapitalista, lo scomparso Umberto Veronesi, che parlando della diffusione della depressione commentava:
Mi sembra una depressione giustificata, e volerla medicalizzare […] mi appare un’inaccettabile ipocrisia. I disoccupati vanno trattati con tranquillanti, ansiolitici e modulatori dell’umore? Certamente i farmaci possono giovare all’ansia e all’insonnia che accompagna la depressione, ma non risolvono il problema di una generazione che non trova il suo posto nella vita
È anche attraverso questi espedienti che l’umanità si trasforma in macchina: quando raggiunge il proprio limite, si cerca soltanto di incrementare le sue performance; perché chi si ferma è perduto. È lo stesso trattamento che, per fare solo un esempio, riserviamo al nostro computer: nel momento in cui non è più in grado di far girare efficacemente dei programmi sempre più pesanti, lo aggiorniamo, lo potenziamo o lo sostituiamo con uno nuovo. Più il tempo passa, più gli esseri umani vengono trattati alla stessa maniera: alla stregua di una macchina.