È possibile voler bene a un robot?

Pubblicato in origine su Wired Italia nel novembre 2018

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“Numerosi studi hanno dimostrato che gli umani sono disposti a provare emozioni nei confronti di tutto ciò che si muove”, racconta sul New Yorker Patricia Marx, scrittrice e docente a Princeton. “Di conseguenza, non mi dovrei sorprendere di essere accorsa a liberare il mio Roomba (il robot aspirapolvere, ndr) quando si è incastrato sotto il divano. E di essermi sentita in colpa quando, dopo aver tirato su un filo, le sue ruote si sono incastrate”.

Quello descritto dall’autrice non è certo un caso unico: uno studio condotto in Germania ha dimostrato come il cervello di 40 soggetti che hanno partecipato a un test (condotto con la risonanza magnetica) reagiva negativamente quando veniva mostrato loro un video in cui un essere umano maltrattava Pleo, un robot giocattolo a forma di dinosauro. Sempre lo stesso Pleo si è trovato al centro di un esperimento condotto dalla ricercatrice del Mit Kate Darling, in cui si chiedeva ai partecipanti di torturarlo: per molti di loro è risultato impossibile procedere. D’altra parte, provate a osservare il video in cui un ingegnere di Boston Dynamics spintona e colpisce uno dei giganteschi robotprodotti dall’azienda: non provate proprio nessun fastidio, neanche leggero?

 

Se avvertite una spiacevole sensazione, non preoccupatevi: è una reazione comune anche tra i militari. Già nel 2007, un colonnello ha sentito il bisogno di interrompere un’esercitazione in cui il robot artificiere TALON stava subendo gravissimi danni definendola “disumana”. E non è nemmeno l’unico caso: un robot dell’esercito USA ha ricevuto l’onorificenza assegnata ai soldati feriti o uccisi in battaglia, il Purple Heart; mentre ci sono testimonianze di soldati che si rifiutano di abbandonare il loro TALON durante degli scontri a fuoco.

Probabilmente, tutto questo avviene perché ciò che è in grado di muoversi – a maggior ragione se, come Pleo e altri, reagisce anche vocalmente alle violenze – ci ricorda necessariamente qualcosa di vivo. In fondo, per la quasi totalità dell’esistenza dell’essere umano le cose sono andate esattamente così: tutto ciò che si muoveva era vivo; di conseguenza è probabile che il nostro cervello si stia ancora adattando a trovarsi circondato da esseri artificiali.

D’altra parte, se siamo in grado di sviluppare un legame affettivo nei confronti della nostra automobile (proprio oggi un mio amico ha pubblicato su Facebook una foto della sua macchina in procinto di demolizione scrivendo: “Mi mancherai, compare”) come potremmo non provare nulla verso robot con sembianze umane o animali, che ci semplificano la vita (come il Roomba) e che in alcuni casi possono anche salvarci la vita (come il TALON)?

Secondo la teoria dell’attaccamento, è proprio questo il punto cruciale: gli esseri umani hanno una straordinaria capacità di antropomorfizzare tutti gli strumenti che li aiutano ad affrontare la quotidianità e a superare gli ostacoli. Ma cosa succederà, allora, quando vivremo circondati da robot estremamente evoluti: in grado di conversare come Sophia, di fare le compere al posto nostro, di giocare con i bambini, di tenere compagnia agli anziani e quant’altro? Secondo quanto mostrato da questi studi, si potrebbe immaginare un futuro in cui l’uomo sviluppa un attaccamento ai robot simile a quello che prova per gli animali domestici (se non addirittura ad amici e familiari); in cui ci prendiamo cura dei nostri compagni-robot tenendoli ben lucidati e assicurandoci che la batteria sia sempre piena. In cui queste macchine antropomorfe oltrepassano lo status di strumenti per diventare degli elementi sociali a cui riserviamo cure e attenzioni.

Ma è proprio così? Paradossalmente, le cose potrebbe andare molto diversamente. Nel momento in cui i robot dovessero diventare troppo comunicativi e troppo simili all’uomo potremmo iniziare a provare una vera e propria repulsione nei loro confronti. La teoria è nota come ”uncanny valley” (valle della meraviglia o dello stupore) e descrive l’inquietudine che l’uomo prova di fronte a robot fin troppo simili all’uomo. Fondamentalmente, secondo questa teoria, più un robot assomiglia e si comporta come un essere umano, più siamo portati a empatizzare con lui; fino a che non si arriva a una certa soglia (appunto, la “valle dello stupore”), superata la quale il robot ci sembra misteriosamente troppo umano e quindi inquietante.

Secondo quanto si legge su Inverse, questa “potrebbe essere una reazione evolutiva, in cui i nostri sensi individuano delle caratteristiche in qualcuno (o qualcosa) che solleva l’allarme”. Come se questi robot stessero cercando di ingannarci, di farsi passare per qualcosa che non sono, e quindi facessero scattare qualche meccanismo difensivo. Oppure, potrebbe anche essere “una risposta istintiva del nostro cervello, che cerca di risolvere la dissonanza cognitiva causata dal vedere qualcosa che sembra un uomo ma sappiamo non esserlo”.

Insomma, siamo pronti ad affezionarci alle macchine solo finché non ci assomigliano troppo. E soprattutto finché non si toccano temi delicati come il rischio di una rivolta delle macchine e (più concretamente) i timori che i robot subentrino a uomini e donne sul posto di lavoro causando la disoccupazione di massa. Non solo: un altro timore generalizzato è quello relativo ai robot che sostituiscono l’uomo nei rapporti sociali e nella cura delle persone. Uno studio, condotto nel 2017 in Gran Bretagna, ha mostrato come la maggior parte della popolazione – per quanto consapevole dei tanti benefici che l’intelligenza artificiale applicata alla robotica può apportare – è particolarmente preoccupata dalla diffusione di robot badanti o robot tate che potrebbero, in futuro, assumere il compito di prendersi cura dei membri più fragili della nostra società.

È facile affezionarsi a un robottino a forma di dinosauro come Pleo, e anche provare compassione verso i robot che vengono inutilmente maltrattati. Il discorso cambia quando questi robot iniziano davvero a farsi strada nella nostra società. C’è però una nazione in particolare in cui tutte queste paure non trovano spazio: il Giappone. “I giapponesi, la cui popolazione sta rapidamente invecchiando, sono ufficialmente incoraggiati dallo stato ad affidarsi ad aiutanti robot in grado di tenere compagnia agli anziani”, ha scritto su Aeon Margaret Boden, docente di Scienze Cognitive all’Università del Sussex. “I robot vengono preferiti agli immigrati e anche agli stranieri con un permesso di soggiorno permanente”. E infatti, nel 2010, un Paro (robot-peluche terapeutico a forma di foca) ha ricevuto la cittadinanza giapponese; così com’è avvenuto ad altri nove robot tra il 2003 e il 2013 e a un software di intelligenza artificiale nel 2017. Lo stesso governo del primo ministro Shinzo Abe sta finanziando le ricerche che mirano a sviluppare robot in grado di prendersi cura sempre meglio degli anziani: nella visione del governo giapponese i robot dovranno infatti occuparsi sempre di più della compagnia delle persone.

Non solo: le linee guida etiche stilate dalla Società Giapponese per l’Intelligenza Artificiale immaginano che i robot possano diventare membri della famiglia. Tutto questo sta avvenendo “in una nazione in cui essere dichiarato ufficialmente membro di una famiglia è qualcosa di estremamente importante”, si legge ancora su Aeon. “Ma forse è ancora più strano, per le sensibilità occidentali, scoprire che i templi buddisti offrono funerali per robot”. Le ragioni di questi comportamenti si trovano nella tradizione culturale shintoista, in cui non c’è – come invece avviene in Occidente – una netta distinzione tra il mondo animato e quello inanimato. E questo vale a maggior ragione per i robot, che non si possono considerare vivi ma non sono nemmeno del tutto inanimati; il che rende possibile che in Giappone si stiano sviluppando affinità tra umani e robot che da noi sarebbero impossibili.

In tutto questo, ci sono però anche dei rischi: l’homo sapiens è una specie estremamente sociale. Per conquistare la felicità, non ci basta soddisfare i bisogni essenziali (fame e riproduzione, per esempio), ma anche quelli che lo psicologo Abraham Maslow ha posto in cima alla sua “piramide dei bisogni”. Tra questi, troviamo l’amore e il senso d’appartenenza (che includono la collaborazione e la conversazione) e anche la stima, il rispetto e la dignità. Non si tratta di futili extra, ma di elementi essenziali affinché gli uomini che vivono nella nostra società godano di benessere psico-fisico.

Possiamo davvero raggiungere tutto ciò se – come immaginato nei piani giapponesi – ci affidiamo sempre di più alla compagnia dei robot (con i quali la conversazione non può che essere simulata o quantomeno limitata) e che non possono essere in grado di nutrire stima e rispetto nei nostri confronti? Non è troppo rischioso preparare un futuro in cui bambini e anziani (e più avanti magari non solo) passano il loro tempo in compagnia di oggetti che possono solo fingere quei sentimenti che per noi sono così importanti?

Il timore, insomma, è di ritrovarci a vivere in una società in cui siamo sempre più isolati l’uno dall’altro; riempiendo questo vuoto con la finta compagnia dei robot. Un rischio sottolineato da Kathleen Richardson, docente di Etica e Cultura Robotica, che in un’intervista proprio a Wired Italia aveva spiegato: “La solitudine delle persone non si sconfigge con le macchine, ma solo con altre persone. Le macchine ci possono soltanto distrarre. La solitudine si risolve invece ritornando a una società che valorizzi i rapporti tra le persone. Più robot portano solo a un maggiore isolamento”.

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